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Pied à terre è il suo secondo reportage grafico. Dopo Les Mains Glacées, in cui si reca in Groenlandia, eccola di nuovo su una nave. Questa volta nel Mediterraneo, per testimoniare l’impegno umanitario. Come si fa a disegnare a bordo? Qual è il suo metodo?
Per entrambi i progetti ho proceduto allo stesso modo, portando con me dei diari di bordo in cui raccoglievo tutte le mie impressioni quotidiane, sia scritte che disegnate. Le due esperienze sono state molto diverse, e questo si riflette nei due diari di bordo. Per la Groenlandia, il viaggio in barca a vela è stato molto più tranquillo e contemplativo, eravamo lì, tra artisti, per creare, scambiare idee e trarre ispirazione da ciò che ci circondava. Il diario di bordo che mi accompagnava è molto più tranquillo, curato, i disegni sono molto più numerosi e più rifiniti, i testi sono elaborati. Per la missione a bordo dell’Ocean Viking, il mio ruolo di reporter implicava anche la partecipazione alla missione. Tra i vari compiti e gli allenamenti, la nostra giornata era molto piena. Avevo molto meno tempo per annotare tutto. I testi occupano più spazio, perché non volevo dimenticare nulla. I disegni venivano realizzati la sera, una volta terminata la giornata. In questo taccuino si percepisce molto il senso di urgenza e le situazioni di attesa stressante. Ho portato con me anche una macchina fotografica per completare le mie ricerche e i miei disegni con un tocco di realtà.
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Nei suoi primi due libri lei disegna “in immersione”, in un reportage impegnato. È una forma che intende mantenere? È questo bisogno di andare sul campo, di impegnarsi personalmente, che le dà la motivazione?
Da sempre il disegno mi permette di lasciare una traccia, di raccontare storie, ma anche di impegnarmi nelle cause che mi stanno a cuore, di poterle condividere con gli altri e di avere la possibilità di risvegliare le coscienze. I miei disegni e i miei racconti mi permettono di spiegare la realtà, a volte insopportabile, dove a volte le parole non bastano più, ma anche di valorizzare percorsi di vita, sogni, speranze e soprattutto emozioni. È imperativo agire e quando si parla di vite umane, essere coraggiosi è ovvio. Per realizzare questo progetto e comprenderne la posta in gioco, era indispensabile per me impegnarmi personalmente e salire a bordo dell’Ocean Viking. Per vivere le cose e sentirmi sufficientemente legittima per condividerle e, soprattutto, più umana; per avere la possibilità di partecipare, nel mio piccolo, a qualcosa di necessario. Desidero continuare, con i miei disegni, a rendere omaggio a tutte le persone coinvolte da vicino o da lontano in queste operazioni. Per Pied à terre, i miei disegni ci ricordano perché dobbiamo continuare a impegnarci e l’importanza di ritrovare un po’ di umanità e coraggio di fronte a questi drammi.
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Quali sono stati i vincoli che avete dovuto rispettare durante il vostro lavoro a bordo della Ocean Viking? Ad esempio, proteggere l’anonimato dei passeggeri e/o dei soccorritori?
Quando si sale a bordo di una nave umanitaria, è necessario rispettare alcune regole, sia per motivi di sicurezza che per rispetto nei confronti dei membri dell’equipaggio e delle persone soccorse. I giornalisti e i fotografi che partecipano a una missione devono rispettare alcune regole. In particolare, per quanto riguarda le aree comuni, non è consentito scattare foto o riprendere video nel salone e in alcune parti della nave. Questo per preservare la privacy dei soccorritori e anche per motivi di sicurezza (pirateria). Diversi soggetti sono loro vietati, in particolare la rappresentazione di cadaveri o bambini, e devono sempre chiedere l’autorizzazione alle persone riprese e fotografate. Con il disegno posso essere più soggettiva e aggirare un po’ le regole, senza però cadere nel voyeurismo. Ho preferito, ad esempio, non raccontare in dettaglio la vita privata dei soccorritori, o utilizzare disegni di onde quando l’argomento evoca una perdita o un annegamento.
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A livello personale, come ha vissuto questa esperienza straordinaria? Si esce indenni da una spedizione del genere? È necessario prepararsi psicologicamente ad affrontare situazioni del genere, prima o dopo il viaggio in mare?
Da quando sono tornata, la parola “coraggio” ricorre spesso nelle conversazioni. All’inizio mi sfuggiva il significato, lo si associa all’eroismo, al non avere paura, alla forza morale. Non mi sentivo legittimata a usare questa parola. Di fronte a questa realtà, mi ci è voluto del tempo per accettarla, e mi ci vuole ancora per non essere indignata dalla società occidentale, che forse manca di coraggio. È imperativo agire e quando si parla di vite umane, essere coraggiosi è ovvio. Se dovessi rifarlo, non esiterei un solo secondo. Ovviamente non è stato facile, è stata un’altalena emotiva in cui inevitabilmente si crolla più volte. Ma i momenti di emergenza, paura e frustrazione sono stati rapidamente cancellati dalla sensazione di essere utile e anche dai momenti di condivisione e gioia che abbiamo vissuto insieme. Se la missione è durata 25 giorni e la realizzazione di questo fumetto mi ha richiesto un anno, in fondo sono rimasta su quella barca molto più a lungo, non se ne va mai veramente. Sono tornata trasformata da tutto ciò che ho potuto vivere a bordo di questo isolotto di umanità. Aver potuto partecipare e testimoniare questa parte della storia ci riporta all’essenziale e alla necessità di poter fare qualcosa di buono.